GLENN HUGHES: il rock dei ’70 rivive per una notte. Recensione

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GLENN HUGHES
Live Milano
CLASSIC DEEP PURPLE LIVE
10 Aprile 2019
Alcatraz
Milano

Voto: 7,0 (sulle ali della nostalgia)
Di Luca Trambusti

The Voice Of Rock GLENN HUGHES Live Milano

Per molti dei suoi fan il soprannome di Glenn Hughes è “The Voice of Rock”; in effetti le qualità per prendersi (e mantenere) questo appellativo ci sono tutte. Il cantante bassista inglese conquistò la fama militando nella formazione dei Deep Purple nel periodo 73/76 dividendo il microfono con David Coverdale e partecipando ad album come “Burn”, “Strombringer” e “Come Taste The Band” oltre che ai relativi tour. Forte di quell’esperienza oggi Hughes (sebbene anche “titolare” di una lunga carriera solista) continua a calcare i palchi portandosi dietro il bagaglio dei Deep Purple e riproponendo il repertorio di quegli anni (più altri classiconi della band). Lo fa con onestà, mestiere e nostalgia.

Il muro di Marshall

Sin da subito, ancor prima delle note, dal look, dalla strumentazione (con i mitici muri di amplificatori Marshall), dall’ambientazione, dalla coreografia, si capisce che è un salto, un “risucchio” negli anni ’70. Quando partono le prime note delle canzoni il tuffo all’indietro è evidente quanto piacevole. Peccato che nella fase aerea del salto ci si scontri contro una pessima qualità acustica, parecchio vicina al limite dell’ascoltabile. Così sarà per la prima metà del concerto, poi un po’ perché trovata la quadra tecnica, un po’ per assuefazione delle orecchie il suono sembra in parte migliorare (ma non molto). E questa sarà la pecca più grande di tutto il concerto.

Stile Deep Purple

In perfetto stile Deep Purple il suono è dominato da un intreccio (impasto in questo caso verrebbe da dire) tra chitarra e tastiere, organo per l’esattezza, cifra stilistica della band che ha segnato l’hard rock (di chiara derivazione blues) degli anni tra fine ’60 e’70. Su questo impianto strumentale si piazza la voce di Glenn Hughes, alta, che ancora oggi colpisce per la sua capacità di arrivare a note altissime e di farlo in più occasioni (la sera prima Hughes si era già esibito a Bologna). Per questo quindi niente da dire se non che ogni tanto il cantante si lascia prendere la mano da certi tecnicismi (un po’ alla XFactor) che nulla aggiungono (anzi forse….) alla sua bravura e performance (come ad esempio in “Georgia On My Mind”, fatta peraltro in coda a “Smoke On The Water”)

Alti e bassi

Il concerto vive un po’ di alti e bassi, alcuni momenti sono assai energici ed eccitanti, fatti per “scuotere la testa”, altri molto più ordinari. Tra i primi vanno segnalati l’iniziale “Strombringer”, “Gettin’ Tighter” con un devastante finale ed una potente (ma non perfettamente convincente per interpretazione) versione di “Mistreated” (cantata in coro dal pubblico e con un gorgheggio di Glenn) e la finale “Burn”.

Un tuffo nei ’70

Preceduto da un bluesaccio arriva, in perfetto stile rock anni ’70, un immancabile (quanto troppo lungo) sudato e muscolare assolo di batteria che mette in mostra le doti tecniche del giovane batterista. Per il resto c’è tanto mestiere, tanta passione, un infinito, reale e mai celato amore per l’Italia (con tanto di promessa di un ritorno). Glenn Hughes non dimentica nemmeno l’amico Tommy Bolin (ex chitarrista dei Deep Purple nel suo periodo nella band, morto di overdose nel ’76) a cui dedica “Gettin’ Tighter”.

Il pubblico

Ovviamente la platea era quella legata alla band inglese, soprattutto per “appartenenza” anagrafica, qualcuno si era portato dietro i figli diversamente adolescenti, pubblico orfano di quel mondo musicale, di quel suono e di quella scena culturale. Pubblico dunque assolutamente ben disposto e di appassionati fan.

Nostalgia… canaglia

Nel complesso il concerto è riuscito a recuperare le atmosfere che hanno segnato il suono dei primi anni ’70, insieme a quel concetto musicale, salvaguardandone in qualche modo la “purezza” portandosi però dietro un buon bagaglio di storica (e non canaglia) nostalgia, mai superata per un periodo, un’epoca. Tutto legittimo e per certi versi piacevole. Resta però il fatto che con Hughes non c’erano gli altri Deep Purple ma soprattutto che la pessima acustica del concerto ne ha falciato almeno metà della qualità. Immutata invece la stima nelle doti vocali di Hughes.


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